SAVERIO BARBARO, da Venezia al Sahara, opere dal 1949 al 1994, Arsenale editrice, Venezia, 1994. Testo di Alvise Zorzi.
Alvise Zorzi
Saverio Barbaro: un cognome venezianissimo, che ricorda imprese d'oltremare e avventure dello spirito, per non parlare dell'amicizia e della committenza che legarono altri Barbaro a Paolo Veronese; un pittore venezianissimo che, proprio perché lo è, trasporta tavolozza e pennelli in quella che i vecchi veneziani chiamavano (strana predestinazione dei nomi) Barbarìa, l'Africa Settentrionale, il Maghreb, e là incontra paesaggi affascinanti e personaggi, nella loro scarna umanissima povertà, ancora più affascinanti...
La vicenda incomincia molti anni fa, con una pittura che ha imparato la lezione fauve del grande veneto Gino Rossi e la rinnova a Parigi attraverso Utrillo e Derain; un cromatismo appassionato che si nutre di una cultura figurativa raffinata ma che, a conti fatti, si riallaccia alla grande tradizione veneziana senza nulla concedere a inutili nostalgie imitative, anzi inserendone il nutrimento in una convinta, talvolta sofferta adesione alla realtà presente. E forse proprio questa comprensione del momento esistenziale che ha spinto Barbaro alla ricerca di nuovi mondi, al di là di una Venezia dove l'arte prende troppo facilmente connotazioni di ufficialità, al di là di una Parigi portata alle rarefazioni estetizzanti, sull'onda di messaggi che sarebbe troppo facile ricondurre ad una moda politica e culturale o all'appello del sole che, pure, ha affascinato maestri a lui cari e talvolta intimamente congeniali come un Gauguin. Il motore di Barbaro è prima e soprattutto quello di tutte le persone veramente intelligenti, la curiosità umana, madre di tutte le cose vere e sincere, la curiosità benedetta che l'ha portato da Venezia a Treporti, da Treporti a Villefranche-sur-Mer, alla Spagna dei paesetti rossodorati raggruppati attorno a chiesoni torreggianti, e che lo conduce sulle orme (è stato detto) di Delacroix e di Matisse, in terra d'Africa.
Ma la sua Africa non è certo quella sontuosamente barbara di Delacroix, né quella delle Odalische di Matisse. Per lui è certamente la scoperta di un colore magro e disseccato anche se raffinato e squillante, dei cavalli bianchi contro muri ocra all'ombra di snelli palmizi, ma è soprattutto la scoperta di un'umanità che gli ispira (senza la crudeltà, ma con la stessa appassionata partecipazione) una pittura che si rifà piuttosto ad un Goya, volti inconsapevolmente amari e tormentati, corpi smagriti da fami ataviche, occhi consumati da un fuoco interiore che non trova sfogo. Ma anche la schietta carnalità di nudi inaspettatamente torniti e sensuali, caldi nella coloritura bruno-dorata su preziosi sfondi in un clima da paradiso terrestre tutto interiore, come l'artista sa scoprirlo anche nell'aridità di una natura matrigna. Adriatico anche in questo, Barbaro conduce coraggiosamente esperienze che, possiamo dirlo, soltanto lui si pone e soltanto lui riesce a superare. Guardando certi suoi paesaggi, certi suoi interni rosa su rosa, rosa su viola, vien da pensare a Umberto Saba e alla rima "cuore-amore", "la più antica e difficile del mondo" che egli era pur riuscito a coniugare. Come quella di Saba, l'arte di Saverio Barbaro si nutre di una antica sapienza che egli ha il merito (merito? o forse talento, dono di natura, abilità suprema?) di farci dimenticare nella schietta apparente naturalezza della sua pittura. E quella che gli permette di essere sempre all'avanguardia senza indulgere a vezzi e vizi dell'avanguardismo, anzi permettendosi d'essere figurativo. Ma oltre all'innata sagacità di una grande tradizione, c'è nell'arte sua ciò che hanno predicato con successo i suoi omonimi umanisti dei grandi secoli di Venezia: l'amore per le cose e per gli esseri. L'Islam? Forse, certa nitidezza di campiture, certe squisite preziosità cromatiche possono derivare dalla migliore arte islamica, quella delle miniature turche o Moghul che spesso disvelano un realismo che non ci si aspetterebbe in una pittura "di palazzo" com'è quella, il contrario di quella di Barbaro, vicina alle cose e agli esseri, senza intermediazioni. Ma non è il caso di cercare impossibili apporti ideologici: da buon erede della grande pittura rinascimentale, Barbaro comunica col solo linguaggio dei segni e dei colori il suo messaggio di fratellanza con l'Universo. Lasciamocene conquistare col rispetto e l'affetto dovuti ad un uomo che pratica, nell'arte come nella vita, l'alta e dimenticata virtù della sincerità.
Alvise Zorzi
Saverio Barbaro: ein durch und durch venezianischer Nachname, der Unternehmungen in Übersee und Abenteuer des Geistes in Erinnerung ruft, ganz zu schweigen von der Freundschaftsbanden zwischen Paolo Veronese und anderen Barbaros, Gönnern des großen Malers. Saverio Barbaro: ein echter venezianischer Maler, der, gerade weil er ein solcher ist, Palette und Pinsel dorthin transportiert, das die alten Venezianer (kuriose Prädestination der Namen) Barbaria, Nordafrika, Maghreb, nannten, und begegnet dort faszinierenden Landschaften und Menschen, die in ihrer nüchternen und so menschlichen Armut noch faszinierender sind.
Das Abenteuer beginnt vor vielen Jahren mit einer Malerei, die die fauvistische Lektion des großen Veneters Gino Rossi gelernt hat und sie in Paris durch Utrillo und Derain erneuert; eine leidenschaftliche Farbgebung, die sich an einer bildlichen, erlesenen Kultur nährt, aber alles in allem an die große venezianische Tradition anknüpft, ohne unfruchtbaren imitativen Nostalgien zu verfallen, sondern vielmehr mit überzeugtem und gelegentlich erlittenem Festhalten an der lebendigen Wirklichkeit ihr Nahrung zuführt.
Vielleicht ist en gerade dieses Verständnis des existentiellen Moments, das Barbaro den Anstoß gegeben hat, auf der Woge von Botschaften neue Welten zu suchen, Venedig, wo Kunst viel zu leicht offizielle Bedeutungsgehalte annimmt, und Paris mit seiner Neigung zu ästhetisierender Vergeistigung hinter sich lassend. Zu einfach, diese Botschaften einer politischen und kulturellen Mode oder dem Appell der Sonne zuzuschreiben, die auch von ihm verehrte und bisweilen zutiefst wesensnahe Künstler wie Gauguin fasziniert hat. Die treibende Kraft Barbaros ist zuallererst und vor allem die aller wirklich intelligenten Personen, die menschliche Neugierde, die Mutter aller wahren und ehrlichen Dinge, die gesegnete Neugierde, die ihn von Venedig nach Treporti, von Treporti nach Villefranche-sur-Mer und dem Spanien der rotgoldenen, um riesige, aufragende Kirchen gruppierte Dörfer getrieben hat, und die ihn auf den Spuren (wie gesagt wird) eines Delacroix und Matisse auf afrikanischen Boden führt.
Sein Afrika aber ist weder das prächtig barbarische von Delacroix, noch das Afrika der Odalisken von Matisse. In ihm entdeckt er wohl eine magere, ausgetrocknete und doch kostbare, lebhafte Farbe, weiße Pferde gegen ockerfarbene Mauern im Schatten schlanker Palmen, vor allem aber eine Menschlichkeit, die ihn zu einer Malerei inspiriert (ohne die Grausamkeit, aber mit derselben leidenschaftlichen Anteilnahme), die auf Goya zurückgreift, unbewußt bittere und gequälte Gesichter, von atavistischem Hunger ausgemergelte Körper, von einem inneren Feuer ausgebrannte Augen, das kein Ventil findet. Aber auch die lautere Fleischeslust unerwartet wohlgeformter und sinnlicher 9 Akte: in warmer, goldenbrauner Kolorierung auf kostbarem Hintergrund in einer verinnerlichten Atmosphäre des irdischen Paradieses, die der Künstler auch in der Dürre einer stiefmütterlichen Natur aufdeckt.
Ein Mensch der Adria auch hier, unternimmt Barbaro mutig Experimente, die, wie wir ruhigen Gewissens sagen können, nur er sich stellt, und die nur en lösen kann. Beim Betrachten einiger seiner Landschaftsbilder oder einiger seiner Ton in Ton rosafarbenen oder rosa- und violettfarbenen Interieurs kommt uns Umberto Saba und der Reim cuore-amore (Herz-Liebe), "der älteste und diffizilste der Welt" in den Sinn, den zu konjugieren ihm gelungen ist. Wie die Kunst Sabas ernährt sich diejenige Saverio Barbaros von einer antiken Weisheit und ihm gebührt das Verdienst (Verdienst? Oder vielleicht Talent, Naturgabe, höchste Geschicklichkeit?) sie uns vor der ehrlichen, offenbaren Natürlichkeit seiner Malerei vergessen zu machen. Jene Weisheit, die es ihm erlaubt, immer an der Spitze zu sein, ohne Schmeicheleien und Lastern des Avantgardismus zu frönen, ja, im Gegenteil, sich zuzugestehen bildlich zu sein. Aber neben der angeborenen Klugheit einer großen Tradition finden wir in seiner Kunst das, was die gleichnamigen Humanisten der großen Jahrhunderte Venedigs mit Erfolg gepredigt haben: Die Liebe zu den Dingen und zu den Lebewesen. Der Islam? Vielleicht stammen eine gewisse Reinheit der Grundierungen, gewisse chromatische Kostbarkeiten von der besten islamischen Kunst und zwar den türkischen Miniaturen oder Moguln, die oft einen Realismus enthüllen, den man in einer "höfischen" Malerei nich erwartet, das Gegenteil von der Barbaros, die an die dinge und Lebewesen herangeht, ohne Vermittler in Anspruch zu nehmen. Aber die Suche nach unmöglichen ideologischen Beiträgen ist überflüssig: als wahrer Erbe der großen Malerei der Renaissance kommuniziert Barbaro seine Botschaft der Brüderschaft mit dem Universum nur durch die Sprache der Zeichen und Farben. Lassen wir uns von ihr mit dem Respekt und der Zuneigung erobern, die einem Mann geziemt, der in der Kunst wie auch im Leben die hohe und vergessene Tugend der Ehrlichkeit praktiziert.